Condannato il titolare di un’impresa di costruzioni

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    Condannato il titolare di un’impresa di costruzioni che assume un lavoratore rumeno senza il permesso di soggiorno. La sentenza n. 27077 del 12/07/2011 della Corte di Cassazione non esclude la responsabilità dal fatto che fosse stata chiesta la regolarizzazione.

     

    Il Tribunale di Mantova condannava il titolare di un’impresa edile alla pena di mesi tre di arresto e euro 5.000 di ammenda, con la sospensione condizionale della pena e la non menzione. perché, in relazione al reato di cui all’art. 22, comma 12, d.lgs. 286/98, aveva occupato in qualità di operaio edile un lavoratore di nazionalità rumena privo del permesso di soggiorno.

    La Corte di Appello di Brescia, in parziale riforma della sentenza di primo grado, riconosceva all’imprenditore le circostanze attenuanti generiche rideterminando la pena nella misura di mesi due di arresto e euro 3.400 di ammenda. La responsabilità dell’imputato veniva tratta da quanto riferito dal Carabinieri del N.O.R. che avevano effettuato l’accertamento presso il cantiere edile e dalla documentazione acquisita. Inoltre, i giudici sostenevano che la responsabilità dell’imputato non era esclusa dal fatto che fosse stata chiesta la regolarizzazione, peraltro, dopo un apprezzabile periodo di tempo dall’inizio dell’attività lavorativa.

    L’imputato ricorreva per Cassazione ma la suprema Corte rigettava il ricorso.

    La Corte di Cassazione, con sentenza n. 27077 del 12.07.2011, afferma che chi occupa alle proprie dipendenze uno straniero irregolare viola la legge, né vale a limitare la responsabilità del datore di lavoro, la circostanza che sia stata chiesta la regolarizzazione.

    L’art. 22 comma12 del decreto legislativo 286/1998 stabilisce che il datore di lavoro che occupa alle proprie dipendenze lavoratori stranieri privi del permesso di soggiorno, ovvero il cui permesso sia scaduto e del quale non sia stato chiesto, nei termini di legge, il rinnovo, revocato o annullato, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni e con la multa di 5000 euro per ogni lavoratore impiegato.

    Nel caso in esame, risultavano infondate le censure del ricorrente che aveva contestato l’inutilizzabilità delle prove testimoniali raccolte, ossia le dichiarazioni dello straniero e del geometra della ditta che aveva fatto da interprete, e la sua buona fede poiché era stata inoltrata la domanda per la regolarizzazione. Ad avviso della Suprema Corte, il giudice di appello aveva correttamente fondato la propria decisione sull’accertamento compiuto dai carabinieri e, rilevando che la responsabilità dell’imputato non era esclusa dal fatto che fosse stata chiesta la regolarizzazione, peraltro, dopo un apprezzabile periodo dall’inizio dell’attività lavorativa. (G-Emanuela Crusi)

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